Le cifre impressionanti dell’orrore e dello sterminio hanno contribuito, fino a questo momento, a creare più indifferenza che memoria.
Stanislaw Vincenz (1888-1971), da Chernobyl di F. M. Cantaluccio (2011, Sellerio)
Nessuno spoiler ma non sarebbero importanti comunque.
Sono tutti uomini e soli. Il Segretario alla Difesa, il Presidente degli Stati uniti, l’autocrate della Federazione russa, il Re folle del Regno eremita. Muoiono in momenti differenti ma una volta che il conto alla rovescia parte il futuro si interrompe, alcuni passati si realizzano, l’esatto quando non importa, il come è nell’evocazione della scrittrice o in un oblio pieno di accuse che non meritano tempo sulla pagina. C’è un inizio che è davvero, nel senso profondo della trama, dei protocolli, degli scenari, anche una fine. Alfa e Omega. Si scrive per svelare, distruggere le narrazioni su cui si pensa di non dover tornare. Queste storie sono ripetute: tit-for-tat, la deterrenza reggerà, guerra come warfare e non come estinzione, controllo, escalation, vita nelle zone d’esclusione. È il momento di raccontare che due bambini abbandonati in una foresta durante una Little Ice Age non incontreranno una vecchia signora e in ogni caso non sarà la strega a finire nel forno perché questa è la temperatura del flusso nell’Antropocene.
Una bambina emerge dalle rovine di Hiroshima, non è da sola, si chiama Setsuko. Annie Jacobsen fa parlare la bambina che è davvero sopravvissuta, la scrittrice ha bisogno forse di compagnia per quello che sta per scrivere: è anche qui, qui è il suo non fiction thriller, per assegnare colpe e quei colpevoli protagonisti lo sono tanto che non meritano un nome. Forse la teoria dei grandi uomini è falsa o incompleta o insufficiente qui però si suonano allarmi, si usa il martello, anche in quella teoria c’è un virus narrativo estintivo che si è realizzato.
Come un antidoto metanarrativo, un’operazione di sabotaggio, una cura si spera non finale, procedo per frammenti, scomposizioni. Il libro di Annie Jacobsen è un romanzo ineluttabile, di secondi, gravità, è una mostra delle atrocità non sublimate; non circoscritte a individui e quartieri e palazzi come la pietà ballardiana svolgeva. Simile sottotesto, senza contenimento possibile è questo scenario. La fiction che sembra voler scacciare il realizzarsi dicendo state attenti. Qualcuno sente che una volta superata la distopia anche il buono di quello strumento, del genere rischia di sembrare usurato, un’inflazione che travolge insiemi che non le competono. La desensibilizzazione, l’invasione della violenza dell’Inner Space, la manipolazione della narrazione, hanno avuto un effetto. Come la democrazia, ci sarebbe bisogno di un motore narrativo funzionante proprio quando ha smesso di funzionare. Qui si divaga ma scrivere di Nuclear War deve essere con pause e perdite e ritorni.
La trama è semplice. Un missile balistico viene lanciato dalla Corea del Nord verso gli Stati Uniti. Non c’è un accesso al prima che potrebbe essere oggi, ora, un’ora fa. C’è un Day Zero che è quel momento topico in cui tutto è già cominciato ma nessuna trasformazione è avvenuta. Nessun sogno, nessun allerta, nessuno stressor particolare, se non l’invenzione dell’arma atomica e poi proliferazione, l’essere specie tecnologica nella sua adolescenza, la scimmia armata verso l’estremo, l’autocoscienza, i balzi in avanti degli altri, il risentimento dalla parola Occidente, quanto tempo siamo sopravvissuti come specie su questo pianeta, la trappola per topi-umani e via dicendo. È uno scenario Bolt out of the Blue, Fulmine a ciel sereno. Qualcosa che è stato previsto, immaginato. Protocolli, miliardi di dollari in gadget e apparati e saperi sono stati impiegati ma adesso, nella fiction, non importa. È successo, non si torna indietro. Questo è un romanzo che dura minuti, minuti e secondi definiscono gli eventi, i capitoli e i destini. Così finisce il mondo, in tutte le sue accezioni. L’idea comune era quella che il mondo non finisce e che nessuno sarebbe stato così pazzo da scatenare una guerra nucleare.
Nuclear war, we are about to learn, robs man of reason. (pag. 64)
Il conto alla rovescia sembra multiplo, ha colori, schermi, sigle. Dietro ogni schermo e colore c’è una storia, ogni storia è in qualche modo semplificata al massimo così che i protagonisti possano lanciare in un tempo che non è umano perché troppo semplice. Di fronte agli uomini che possono cominciare la fine del mondo c’è qualcosa di simile a un menù plastificato. Non c’è davvero tempo per leggere, ripetere, studiare. I presidenti leggono una versione essenziale da decenni di studi, analisi, calcoli. Devono essere macchine per essere utili.
La catastrofe nell’Antropocene comincia con il chiedersi se quello che sta succedendo sia reale. I primi minuti, i primi capitoli corrono di personaggio in personaggio, da bunker a piattaforma a centro di comando e controllo, da satellite a radar in attesa che il non detto venga dismesso: sta succedendo davvero? Nonostante tutto ovvero quella massa enorme di studi, esperimenti, protocolli, miliardi di ore di preparazione per individuo. I countdown per la fine degli imperi, per le prossime guerre civili, dei cicli di rinascita delle autocrazie, quello ancora più fluido della capacità portante della CO2 nell’atmosfera per la civiltà as we know it, sono tutti lì, che incombono ma nessuno di questi è, per fortuna, simile a quello di tutti gli scenari di guerra nucleare. C’è una storia nel libro di Jacobsen, è nel testo e nel sottotesto e tra i due, una che è controintuitiva perché c’è l’inganno dell’infanzia atomica su Nagasaki e Hiroshima. Questa storia dice che non è possibile una guerra nucleare limitata. Quando avverrà sarà totale perché è nella sua natura, è l’Estremistan interno, l’estremo di Girard che è potenza. Scrivere è mettere immagini nella testa di sconosciuti.
Former CIA officer and the EMP Commission’s long-serving chief of staff Dr. Peter Pry said in an interview for this book shortly before his death in 2022, “If North Korea detonates a high-altitude EMP over America, it’s Electric Armageddon.”
If. (pag. 255)
Il mondo in qualche modo finisce. Il rischio di un olocausto nucleare ci sarebbe anche se le armi nucleari non esistessero dice il Dr. Manhattan in Watchmen. Finisce con Trinity, è il senso di Lynch e di Christopher Nolan. Reazioni nucleari si sono formate naturalmente in caverne alla fine dell’Africa. Non è il tool, è il paradigma e soprattutto quello che prova a spiegare. L’immaginario aiuta ma in modo limitato. Uomini non credono che una guerra nucleare sia possibile e salvano il pianeta da una sala radar russa. Il mondo è finito e sembra una sottigliezza hip, un gioco intellettuale. Il libro. La civiltà si conclude nel momento del lancio, mentre un radar americano conferma il rilevamento dei satelliti, nella mente di tutta la catena di comando e controllo, i lurker con i sufficienti apparati tecnologici, quando il missile esaurisce il carburante e diventa invisibile ai radar, quando colpisce l’obiettivo. In ognuno di questi momenti c’è una fine del mondo, per ognuno un capitolo, una pagina e un minutaggio. Tutti vogliono possedere la fine del mondo, scrive Don DeLillo, forse pensano sia l’ultimo segmento rilevante del flusso informativo. Vogliono ma non capiscono che è finito, vogliono ma elaborarla davvero incontra una serie di ostacoli, un lag del pensiero. L’inhuman dread non è sufficiente a spiegare.
Scrivere però è un tentativo. Un uomo o una donna entra in cucina. Potrebbe essere un giorno speciale. Si guarda intorno. Sul tavolo, il piano di lavoro che dovrebbe pulire, sopra la lavastoviglie, accanto il bollitore. Niente. Cerca la tazza rossa. Guarda in punti appena più improbabili dopo aver cercato nella credenza e dentro lavastoviglie. Intanto il caffè comincia a riempire la caffettiera. Guarda ancora tra i piatti ad asciugare, vicino i condimenti accanto ai fornelli, sposta barattoli e contenitori che certamente non possono nascondere la tazza rossa che cerca e che continua a cercare. Spegne sul fuoco, prova a distrarsi, sforza la memoria, forse ha spostato la tazza sul tavolo dello studio, su un altro tavolo. Frustrazione. Poi si gira, guarda dove ha guardato più volte da quando è entrato. La tazza rossa è lì, accanto ai fornelli. Sempre stata lì. Adesso, la tazza rossa è l’orrore, meglio, l’Orrore. Come in un romanzo con vampiri, pericoli oscuri, le presenze che scrutano dalla foresta, versioni incarnate di una cospirazione contro la razza umana: l’orrore è sempre stato lì. I personaggi di quei romanzi potevano essere coscienti dell’esistenza dell’Orrore prima del suo manifestarsi, forse solo qualche intuizione, sentire la presenza dell’Orrore prima che arrivi. Un’intuizione, istinto di sopravvivenza, ancestrale, un dono degli antenati che è rimasto nonostante tutto. Oppure del tutto ciechi, dissonanza assoluta fino a quando è troppo tardi. La conoscenza non è sufficiente, la comprensione neanche, la distopia non aiuta, il vivere l’orrore è troppo tardi. Le armi nucleari sono l’Orrore che esiste. Non un minuto nel futuro, adesso. Alcuni dei personaggi di Nuclear War a Scenario arrivano a sentirlo. Al lettore e alla lettrice la possibilità di non vedere la tazza è negata. Quegli oggetti non sono strumenti di guerra, sono perfetti per il Re folle. Sembrano fatte per lui, non per vincere. Quante guerre nucleari ha impedito The Day after?
In The Peacemaker (1997) la protagonista, scienziata nucleare passata alla non proliferazione, dice “non temo l’uomo che vuole dieci armi atomiche. Sono terrorizzata da colui che ne vuole una” ma se questo è lo scenario è la frase successiva quella importante: They feel pain and they're determined to share it with the world. Questo è il momento dei presidenti. C’è un altro disastro, un’apocalisse del metaforico, un divide cosmologico uomo e il resto, il distacco e il disprezzo dall’animalità e dal biologico. Ecco allora che i sentimenti diventano l’unico movimento in una bottiglia vuota, buia, chiusa. Il distacco era già grande, diventa di altra magnitudine al centro di cerchi e bolle di sicurezza, lontani dal semplice lavoro del cucinare, guidare, decidere di uscire. Dentro un bunker attrezzato e raccontato come a prova di olocausto. Pure se uno zeitgeist venisse intercettato nessuno lo ascolterebbe. Qualcosa di rompe quando è già rotto. Non l’intento ma le idee e queste sono un prodotto di interazione biunivoca tra fiction e realtà che rischia perennemente di collassare. Per questo in Nuclear war a scenario uomini credono di potersi lanciare da un elicottero e cercano dei paracadute e perdono tempo per una qualche sindrome da superuomo che pensa di ridurre la differenza tra fiction e occasione con lo stare insieme, essere decisi, addestrarsi. La sopravvivenza nonostante tutto, dopo di me il diluvio, quella nucleare è una guerra non un’altra cosa, sarebbe meglio se, altri controfattuali ma prossimi come resettare, ricominciare, il pianeta senza di noi, l’umano come virus, l’Occidente, un qualche suprematismo razziale, il mondo è dolore e compito dell’uomo in cima è somministrarlo in una policy of pain di cui scrive Timothy Snyder, il dolore deve cessare e il dolore è la coscienza dell’essere coscienti sul pianeta terra, l’innocenza nella politica dell’eternità nascosto in Siberia, there’s no alternative, Gaia e i suoi emissari consapevoli o meno. Un nichilista con i codici di lancio. Il cocktail dell’apocalisse è composto da sogni e idee. Non c’è un fallimento dell’immaginazione, ancora una volta. Deve esserci un limite narrativo intrinseco ma tutti i frammenti sono rintracciabili in nomi, fonti, tracce. Un qualche protocollo operativo della narrazione sarebbe inutile? Sì.
Once we were the bridges, exemplars of change, mediators with the future and the unseen, scrisse Paul Shepard ma questa è una divagazione assolutamente casuale e disperata per trovare qualche traccia sull’origine di Cecità e Dissonanza. In maiuscolo come piccoli dei. Sono eventi, presenze persistenti prima dell’evento X; si ripetono, forme di impossibilità di vedere e comprendere quello che si vede. Più volte, in più pagine, sempre accanto, dietro, intorno a personaggi storici e del romanzo. Costellano la vicenda, per la lettrice e il lettore in bella vista, capitolo dopo capitolo, ed è il momento di scorgerli, notarli. L’impossibilità di vedere oltre l’orizzonte è un limite fisico della tecnologia radar. Ne arriveranno altri. Sono i personaggi non umani del romanzo della Jacobsen, gli abitanti della nebbia di guerra, delle cecità procedurali, tecniche e cognitive. I satelliti che non possono tracciare il missile balistico una volta esaurita la fase di accelerazione, l’assenza del presidente russo al telefono rosso e la capacità estintiva del risentimento da impero che eternamente collassa, la creazione e poi l’esistenza di asteroidi che sono sottomarini e la rotta di sottomarini primitivi diesel con una singola demoniaca testata nucleare, l’orografia della Corea del Nord che nasconde gli enormi mezzi da lancio e la percentuale di terre coltivabili, l’orizzonte degli eventi ma per i piloti di bombardieri stealth, ogni occasione in cui uno scambio con armi nucleari è stato evitato e il riflesso condizionato che questo ha causato, la fortuna che finisce con il percentile di successo degli intercettori, il comando strategico russo che non può vedere dove andranno e quanti sono i missili balistici americani, la forza innominata che fonde i minuti e le decine di minuti in attimi, gli analisti e gli strateghi che sanno ma non comprendono che tra il sapere e il comprendere si annidano rischi inumani, i moral compass che avendo smesso di funzionare in passato mentre si costruiva il SIOP hanno convinto i navigatori successivi che quelle sono comunque le direttrici operative giuste, l’obsolescenza dei concetti per il Segretario alla Difesa, le promesse mancate della fantascienza, i messaggi EAS che non vengono inviati, il tempo di decadimento del trizio. Queste entità non studiabili sul campo da antropologi hanno riempito un vuoto immaginifico forse e non possono essere testate, osservate, senza far finire il mondo degli umani con cui occupano lo stesso sistema ecologico.
Sembra ci sia un’epidemia di stupidità negli agenti umani ma questa dell’Idiot Plot sarebbe una storia narratologica della buona notte. L’intelligenza è uno strumento non rilevante in questo scenario, inutile, inattuale, inadeguato. Gli umani sono traviati da una mappa che non è per loro e possono soltanto andare dove non possono e non devono, negli spazi tra i sette bias mortali di Amy. B. Zegart. Sono circondati, dal tempo, dalle presenze fantasmatiche non umane nell’Antropocene. Il futuro è letteralmente oltre l’orizzonte degli eventi.
Da qualche parte, in un altro libro, ci sono pagine che riferiscono del razionale nell’assetto delle forze strategiche nucleari in Occidente. In breve, a memoria, quelle pagine dicevano che è grazie alle armi nucleari che è stato possibile non avere grandi forze convenzionali pronte in Europa a contrastare un’invasione sovietica e poi russa. Forze in milioni di uomini e donne in età militare sono state liberate alla vita civile. Questa società civile, questo assetto produttivo, la sanità pubblica, le rivoluzioni culturali, questo capitalismo, le mode, l’esistenza come impiegato o artista o madre come prodotto accidentale del dispiegamento del dispositivo nucleare. Questa però è un’altra storia, forse un’altra vertigine.
Ci sarebbero delle soluzioni, ci sono umani che vedono ma sono accenni, dettagli. David M. Shoup che ha combattuto si oppone come può, l’evocazione di Daniel Ellsberg, la messa in scena del vecchio cowboy che guarda insieme a chi legge il fungo sollevarsi e vede il flusso degli eventi e delle informazioni. Forse inconsciamente come sempre fa chi scrive un romanzo Anne Jacobsen cerca tracce per alternative a questo realismo nucleare. La scrittrice entra nel pool di umani giusto, ignora i controfattuali come un diverso utilizzo dei Trident perché sarebbe irrilevante soprattutto adesso, ora, in cui il tempo perduto non riguarda i singoli ma il pianeta. Scaduti i secondi, passati i minuti e i capitoli in cui umani e non umani si affannano, i demoni ballano e i fantasmi ritornano, la ragione muore sul palco procedurale ma era morta prima del sipario e del lancio. Questo è un romanzo dell’orrore e vuole chiarire una questione: Milwaukee is not spared.