Spoiler ma non dovrebbe essere importante
Deve essere l’inizio calmo di una lunghissima estate continentale. Anche nel thriller più ingenuo non manca ormai una tempesta senza nome e fuori stagione, un uragano inaspettato, lì a movimentare la trama o interrompere e deviare il viaggio. I civili sono in maniche corte, i campi leggeri come la fanteria meccanizzata. Non è una vera guerra ma una cavalcata. C’è l’orrore di New York, forse città aperta in pieno territorio lealista, l’autocisterna con l’acqua, gli odiati poliziotti, la folla che protesta sembra composta da minoranze, sono un obiettivo perfetto per la vera americana eppure questo orrore deve essere niente rispetto all’inhuman dread di un attacco con artiglieria moderna, i bombardamenti di precisione oltre la linea dell’orizzonte, l’essere cacciati da droni, la velocità d’esecuzione delle forze speciali occidentali che possiedono la notte e lo spazio. Forse tutto questo avviene sul fronte di Charlottesville ma non è un film di guerra. Le forze costituzionali secessioniste sono in stallo, dice il vecchio giornalista ma è improbabile. Adesso quel warfare è senza limiti, settato sulla velocità di esecuzione, da una parte e dall’altra ci sono gruppi di combattimento capaci di operare indipendentemente. Stanno dando il tempo ai generali lealisti di arrendersi, il crollo narrativo deve essere elaborato perché la mente umana è tragica e insieme, in queste occasioni, lenta, vittima dell’inerzia che tiene a galla le storie. Timisoara, Timisoara è cantato prima che la folla si riunisca, di arrivare nella piazza. Il presidente ha ordinato l’uso di armi nucleari tattiche e i suoi generali hanno rifiutato? Sarebbe la tensione verso l’estremo che prova a realizzarsi di cui scriveva Girard. Non lo sappiamo, non importa. La direttrice secessionista che arriva a Washington è leggera e veloce, un aggregato di Humwee e blindati da Swat, qualche carro armato, elicotteri, caccia di ultima generazione che cazzeggiano a bassa quota, nessuno vuole ridurre a una Grozny la capitale. Vogliono solo la testa danneggiata.
Gli anarchici di Portland non hanno certamente la capacità energetica per combattere davvero, spingersi contro le forze lealiste, formare colonne, avere riserve. È interessante sapere che siano ancora in esistenza, che dalle campagne non ci sia stata alcuna orda eliminazionista. Avanti, lontano da casa, vanno altri, i professionisti, gli adulti. In ogni caso le mappe andrebbero sovrapposte, quella della prima guerra civile, delle guerre civili americane nella fiction, mappe nel flusso del tempo e della storia. Incredibilmente la Los Angeles dei Diari di Turner non sorprende, sconvolge di più la notizia dell’alleanza tra California e Texas come se i due stati non fossero potenze economiche, militari e culturali per sé, come se l’interscambio commerciale, sociale e umano tra i due stati non fosse immenso. Il Texas e la California nella fiction pre e post apocalittica di solito resistono. Che si alleino contro il dittatore di Washington è ragionevole. La sorpresa, lo stupore di parte del pubblico americano di fronte alla Two star Flag è un prodotto della dialettica sintetica woke vs real/pilled/awakened. La mappa di American War di Omar El Akkad (Rizzoli, 2017) che riprende quasi in modo non creativo le linee della prima guerra civile americana è quella noiosa e insieme più improbabile. Alex Garland non è affetto dai virus culturali di questo decennio, sano riesce a svolgere gli schieramenti, svolge il piano senza immettere stupidità. Questa igiene, chiarezza dello scrittore, è già politica.
È interessante la critica sull’ambiguità politica del film. I partiti non vengono nominati perché probabilmente non esistono più. Civil War non è un film di guerra ma un thriller d’azione e il motore del genere non ha bisogno di un background dettagliato in ogni caso. Sappiamo che il presidente in carica è al terzo mandato, in violazione della Costituzione, 22° emendamento, chiarissimo sul limite dei due mandati. Chi ha certificato l’elezione? Quale stato ha accettato la candidatura di un presidente ineleggibile per la Costituzione? Gli stati lealisti? Il perché fa parte della nebbia di guerra informativa ma è irrilevante. Nessuno corre ad assaltare il Congresso o la Corte suprema che erano punti d’interesse per i Figli di Giacobbe ne Il racconto dell’Ancella. Sullo sfondo ci sono molteplici fallimenti nei check & balance e molti evidenti high crimes and misdemeanors per cui cominciare e concludere una procedura di impeachment ma l’Fbi è stata soppressa, i “secessionisti” prendono il Pentagono, probabilmente con un’operazione dimostrativa o le batterie antimissilistiche avrebbero abbattuto qualunque elicottero nelle vicinanze, e nessuno si preoccupa di arrestare il segretario del Dipartimento di Giustizia, forse altra vittima silenziosa. Non serve dire a quale partito appartiene il presidente perché il nome è irrilevante. La prima guerra civile fu condotta contro stati governati dal partito democratico, garanti delle proprietà terriere ottenute dalla Corona inglese. La miniserie Manhunt, sulle ore e i giorni che seguono la sconfitta dei secessionisti nella prima guerra civile e la caccia all’assassino di Abramo Lincoln (Apple Tv, 2024) è chiarissima sull’eziologia e la genealogia dell’oppressione, in una catena degli errori politici, narrativi e militari in cui il nemico schiavista è nominato come democratico. La donna kamikaze in Civil War di Garland corre contro una folla sui miti e inganni dei giorni e anni accennati in Manhunt, un secolo e mezzo di storia americana prima. Alla radio in Civil War una voce stanca dichiara di voler difendere la Costituzione e il suo presidente poche scene prima del collasso del fronte militare. Multipla ridondanza ma il giuramento degli Oath Keepers, uno dei gruppi più attivi nell’insurrezione del 6 gennaio 2021 al Congresso, ricalca quello che gli appartenenti alla forze armate fanno alla bandiera e alla Costituzione. Donald Trump non è considerato un insorto nonostante le sue parole e azioni prima, durante e dopo il 6 gennaio 2021. La posizione di Garland è ambigua solo per chi non ha compreso il concetto di democrazia, dello stretto corridoio tra autocrazia e libertà, della lotta che è in corso adesso. Il tempo è buono, stabile, lo Scrittore vuole che l’esercito dei giusti arrivi presto a Washington. I nomi non contano.
Il tempo passato dalla nascita di un impero, tra una guerra civile e l’arrivo di una nuova, quel conto alla rovescia tra i momenti di pace e quelli del sangue per le strade, della violenza tra le élite, patrimoni finanziari, debiti non più pagabili con interessi insostenibili, il gioco delle sedie del potere e della società, i cicli del populismo, Balcani, clan, trascinare nelle strade, impiccagioni pubbliche impresse nella memoria di specie attraverso la televisione, quanto tempo uno stato rimane in guerra, il veteranismo e l’anocrazia, le risposte dei gruppi sociali ed etnici alla perdita del potere o della maggioranza nella composizione della popolazione generale, quante armi sono in mano ai civili considerata la differenza tra il semiautomatico e il mitra che l’assalto non è una qualità di un oggetto ma una pratica. Tutto questo ha bibliografie e romanzi. Il perché adesso è inutile e infatti nessuno dei personaggi ne accenna: perché scoppia una guerra civile. La protagonista in qualche modo risponde non rispondendo: lei deve fissare le immagini, immagini che in momenti di stress ed eccitazione ritornano. Perché avviene la catastrofe della guerra civile è una discussione di altri, che si fa e si svolge altrove, non in corsa, non sotto la luce dei traccianti. Non è il lavoro della fotografa di guerra come del regista. Sono saperi accessori, incidentali. Al massimo servono per orientarsi, fotografa veterana, giornalista anziano, il regista di 28 giorni dopo. Servono soldi in valuta forte ovvero dove uno stato ancora garantisce in qualche modo il valore intrinseco nelle strade, tra la gente, delle strade e autostrade e della propria popolazione. Serve conoscere le immagini come parti dell’immaginario. Quelle delle strade vuote dove nessuno rischia più per un DUI e nessuno rischia più di fermare e fermarsi, con o senza una divisa, e delle autostrade bloccate da relitti e veicoli meno fortunati delle macchine costose che rimangono abbandonate per prime sui cigli delle strade. Sono immagini dell’apocalisse della fiction e del reale, nella loro biunivoca, antropocenica e ballardiana influenza, The Walking dead et similia e l’Autostrada delle morte.
Garland ha letto Timothy Snyder? Due giornalisti, due fotografe. La catastrofe è su più livelli e sensi, è di adattamento e nell’adattamento sistemi, valori, vite e professioni cadono. La catastrofe comincia con la chiusura dei giornali locali, il licenziamento dei giornalisti e giornaliste che scrivevano e indagavano vicini alle comunità. Qui due traditio lampadis, del giornalista anziano della testata prestigiosa ma al collasso e l’uomo iperstimolato che pensa di essere giovane, l’eroina con una tradizione nel nome della reportage fotografico di guerra e la giovane fotografa che sembra una bambina. In qualche modo sono tutti e tutte dei privilegiati ma questo è irrilevante. Una volta il pompiere, il medico, l’insegnante, il poliziotto e il giornalista erano professionisti onorati, le eroine e gli eroi della funzione pubblica, civil servant. Qualcosa è successo ma qualcosa, scrivendo, si può provare a rimettere insieme. Nel collasso di alcune strutture narrative e quindi logistiche Garland sceglie questa categoria dimenticata quasi, per assistere al suo thriller, non eroi ed eroine scelte a caso e sono umanissimi. Se la protagonista Lee Smith ha distacco e consapevolezza fino all’ultima scena e ultimo secondo, altrettanto forte e capace è Joel interpretato da Wagner Moura. Sudato, alterato, è un caso della vita che non sia a combattere, da una parte o dall’altra. È un maschio eterosessuale adulto in una situazione di rischio vita percepito, beve e fuma, cerca di scopare ad ogni occasione e non ne avrà molte ma esprime un drive istintuale, quel tipo di frenesia che soldati e miliziani descrivono e ricordano dopo aver parlato dello spirito di gruppo e “famiglia” provato sotto le armi e altre storie e pulsioni rassicuranti. Joel vi è solo vicino ma percepisce qualcosa della barrack life. Sia Jessie che Joel hanno il problema di sentirsi vivi come non mai mentre il tessuto non solo metafisico della civiltà comincia a creparsi, torna quello che è stato per secoli di vita sul pianeta. Un inganno di neurotrasmettitori che aiuta nelle emergenze ma rischia sempre di diventare antiumano. Tutti si sentono più vivi quando la morte è a distanza di sicurezza come tutti sono gangsta, guerrieri, tacticool e tattici, liceali patriotici fino a quando non sei a Verdun o nel raggio di una batteria di Himars. Sotto un bombardamento o il suo spettro il guerriero, la scimmia armata, piange e torna bambino.
In una cura contro le varie dissonanze sintetiche Garland fa assaltare quello che sembra un edificio federale dismesso e presidiato da forze governative da dei boogaloo bois. Coordinati, professionali, civili con semiautomatici nel brand positioning della Magpul, della Eotech, della Daniel Defense, della Surefire, sono i buoni. In qualche modo e per qualche caso del destino culturale che vuole sfottere gli schieramenti nei sogni neri, i bois attaccano e vincono. Ci sono esecuzioni sommarie di prigionieri ma i bois non devono rispondere al presidente golpista o sappiamo che i giornalisti verrebbero giustiziati. I bogaloo bois che difendono la democrazia e la Costituzione e non un qualche delirio vitalistico ma forse quelle camicie erano solo camicie brutte o i bois hanno messo su famiglia. In ogni caso l’uccisione dei prigionieri combattenti è un effetto conosciuto della mancanza di struttura logistica militare: si uccidono individui quando non si può offrire cura o rifugio in regime di contenimento. Oltre lo status o il presunto odio. Per questo motivo sembra che i prigionieri venissero giustiziati anche nella preistoria. Rimane il crimine di guerra, continuo, in uno statuto sostanziale che si è andato deteriorando con la Guerra al Terrore e prima ancora con il concetto stesso di guerra strategica dove è la popolazione a essere il bersaglio, le generazioni future di combattenti, la capacità di una società proiettarsi avanti ma questa è un’altra storia e non è la guerra di Garland. Che ha un vero momento significativo da guerra civile dalla frase “Lo conoscevo. Andavamo a scuola insieme”, mentre i saccheggiatori rimangono appesi, il loro tempo in scadenza è un destino fluido, deciso forse da un blackout, dal ritorno delle forze dell’ordine, dalla fine del grande evento. In punti diversi il tempo rallenta e accelera, storie e pulsioni sono in un flusso complesso che definiscono quanto la sezione normalità dello spettro sia ridotta ma non scomparsa.
Più lo spettro è fluido, più i lupi, le creature del collasso, vero o percepito, escono dall’ombra ed ecco che il trailer come i meme erano ingannevoli, un inganno necessario. Da qualche parte nella campagna ordinata uomini in uniforme ma senza gradi o identificativi fanno quello che hanno occasione di fare. Il loro capo chiede what kind of american are you. Gli schieramenti, le opinioni su Costituzione, doveri, giuramenti, la politica non c’entrano e spettatori e spettatrici perdono un po’ di tempo nell’orientarsi in quello che è il vero colpo di scena del thriller. Le prede sono in un altro piano culturale, i predatori sono tali in un loro estremo della verità biopolitica: non sono interessati alle opinioni, vogliono sapere il continente, l’etnia prossima, la razza. Il colore della pelle non è una realtà chiara ma quegli uomini vogliono giustiziare, riempire le fosse, per il fenotipo. Quelli stanno svolgendo la propria guerra, razziale, forse ancillare, ausiliaria, opportunista a quella del presidente. È ancora possibile nutrirsi e fare benzina ma il collasso è uno stato mentale, un’idea del futuro e se ci sia un futuro. Per gli uomini che riempiono la fosse la guerra etnica è stata ogni giorno per molti anni, la guerra civile l’occasione come l’ignavia della comunità lo è per lo stupratore. Sappiamo benissimo che a minare la civiltà occidentale in una coming anarchy non saranno aggregazioni di ragazzini senza padre svantaggiati ma apparati immaginifici e paramilitari antiumani organizzati da adulti. Quello che succede nella scena della fossa è il futuro dell’America o dell’Occidente tutto se il collasso non viene impedito: il nazismo. Quelli intorno alla fossa hanno un’interpretazione della realtà terribilmente convincente e affascinante per società in cui il senso del declino, del crollo della stabilità climatica dell’Olocene, della fine della Storia sono le uniche storie proposte.
Non c’è tecnicamente molto tempo. Il futuro è già arrivato, soltanto non è ben distribuito scriveva William Gibson.
Garland ha scritto e diretto un film antifascista e contro lo spettro dell’autocrazia. Civil War è una cautionary tale, l’unico senso onorevole per ancora dire la parola distopia, senza una morale consolatoria e comode coordinate politiche. La prossimità al reale, lo sforzo creativo per ottenerla e fondare orrore e velocità, provoca disorientamento per lo spettatore che attendeva che qualcosa simile al preconcetto si svolgesse sullo schermo. Una catastrofe è in corso, la corsa verso Washington, verso le mura e i bastioni eretti intorno alla Casa Bianca, sono ragionevoli. La Casa bianca è il bunker sotto la Cancelleria: in qualche modo la corsa deve concludersi e tutti morire. Uccidere il dittatore è un tipo di premio il cui valore intimo, storico e profondo non andrebbe ignorato o sminuito. L’azione è divisiva solo se si condivide il sogno nero del dittatore che muore nel suo letto o si rimarrebbe a guardare altri cadere nel precipizio proprio a pochi metri e poi centimetri.
Qualcuno ha scritto che il reato tipico dei periodi di raffreddamento climatico era la stregoneria. Bisogna conoscere le fattispecie dietro le immagini. Idee bizzarre su dettagli legali o culturali che hanno conseguenze estreme, insurrezioni e guerre civili, vere o evocate come strumento asimmetrico di imperi deboli, devono essere il reato del lungo adesso dell’Antropocene.